Vipassana o dell’Unificazione


La caduta della dualità soggetto-oggetto, che è scopo e risultato della meditazione, ha per così dire due facce, tra loro strettamente connesse.

Da una parte il depotenziamento dell’io-ego, la cui vacuità si salda con la vacuità dei fenomeni, i quali – d’altro canto – cessano la loro separazione dalla coscienza che precedentemente li coglieva attraverso le sue operazioni dualistiche di pensiero e di rappresentazione.

Nella vacuità dell’apertura i contenuti vengono infatti esperiti nella loro immediatezza e quindi lasciati andare, centrandosi l’attenzione non su di essi, ma sullo sfondo “aperto” e “vuoto” della mente.

La meditazione della calma mentale (śamatha) raggiunge in tal modo il suo traguardo costitutivo.

Ora noi diciamo che in vipassana (o meditazione della “visione profonda”) questa dinamica di śamatha rispetto ai contenuti viene portata a compimento.

Se infatti in śamatha ciò che si sperimenta nel corso della meditazione viene semplicemente lasciato andare, in vipassana ci si focalizza sui contenuti fino a raggiungere la piena unità di coscienza-fenomeno.

E’ quel che tradizionalmente viene definito come samadhi: il permanere nell’immediatezza dei fenomeni che in tal caso non si presentano più alla coscienza o all’osservatore, ma ne sono un tutt’uno, visto che l’osservatore è caduto e che la coscienza abbandona le sue operazioni dualistiche per farsi consapevolezza, vigile attenzione e presenza mentale.1)

Nel caso di vipassana, ciò va anche oltre quel che accadeva per śamatha con supporto, in quanto la sua relazione con i contenuti non è fissa e immobile – come avveniva nell’assorbimento concentrativo – ma del tutto dinamica.2)

La meditazione vipassana è dunque un focus di attenzione consapevole che si sposta su tutti i livelli dei contenuti, ne segue le manifestazioni e le proprietà, uscendone ed entrandovi liberamente, sempre in modo immediato o unitario con essi.

Diremo che è una meditazione di tipo dinamico e in ciò si distingue dalla staticità di śamatha.

Inoltre essa predilige non tanto i fenomeni del mondo esterno quanto i contenuti corporei presenti nell’arco della meditazione.

Prossimamente vedremo le ragioni di questa “inclinazione”, ma intanto verifichiamo come essa svolga una funzione complementare rispetto a tutte le forme in cui viene praticata śamatha, il loro necessario coronamento.

Ciò rappresenta il presupposto dell’unità delle due forme meditative, perché vipassana, una volta realizzata l’unificazione del samadhi, ritorna naturalmente all’apertura, saldandosi con śamatha nella realizzazione di una meditazione compiuta.3)

Mappa concettuale sulle due forme della meditazione

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1) Samādhi è un sostantivo maschile sanscrito proprio delle culture religiose buddhista e induista che definisce l’unione del meditante con l’oggetto della meditazione. (…) Esso corrisponde all’ultimo stadio dell’Ottuplice sentiero e quindi riassume tutte le pratiche meditative dei dhyāna oltre le quali si colloca l’obiettivo finale, il nirvāna. (da Wikipedia)

2) Negli articoli precedenti si è parlato di “meditazione dell’apertura o della vacuità”, volendo con ciò riferirsi alla pratica di śamatha così come attualmente praticata nella maggior parte dei lignaggi buddisti. In realtà – tuttavia – si è già visto come questo tipo di meditazione venisse praticata tradizionalmente mediante un supporto concreto, che in quanto tale non poteva certamente essere “lasciato andare”. Al contrario su di esso si esercitava una costante e vigile attenzione o “concentrazione”, dove con quest’ultimo termine si intendeva una focalizzazione univoca diretta sul supporto.

3) C’è dunque una “unificazione” o samadhi di vipassana con i contenuti della meditazione. C’è poi un ancor più profondo samadhi allorché vipassana si salda definitivamente a śamatha.