Le Due Forme della Meditazione



Śamatha e Vipassana

Nella tradizione buddista esistono due tipi di meditazione: śamatha e vipassana.

La prima rappresenta la cosiddetta “meditazione della calma mentale”, mentre la seconda è “la visione profonda”.

Il rapporto fra le due è spiegato in maniera differente nelle varie tradizioni. Quel che non è del tutto chiaro è se vipassana nasce da śamatha, come esito di quel tipo di meditazione, o se è anche in qualche misura autonoma.

Vi sono comunque lignaggi che praticano prevalentemente l’una o l’altra, qualche volta facendo di vipassana l’esito di śamatha, altre volte concentrandosi quasi esclusivamente su vipassana per raggiungere stati che dovrebbero essere caratteristici di śamatha.

Questo dimostra l’intima connessione delle due forme, in cui la prima procede dalla totale apertura della mente, mentre la seconda si focalizza piuttosto sui contenuti.

Qui non ci soffermeremo su come i maestri buddisti spiegano diversamente queste meditazioni. Piuttosto ci preoccuperemo di offrire al lettore una nostra chiave interpretativa che è anche una questione della pratica e del suo dispiegamento.

Ricordo che quando frequentavo il sangha di tradizione kagyu, si insegnava che la meditazione di calma mentale doveva essere il più possibile priva di supporto e che la visione profonda nasceva allorché le proliferazioni mentali si acquietavano, un po’ come succede per l’acqua che contiene sabbia e che, se agitata dentro un contenitore, si opacizza salvo ritornare limpida e trasparente allorché il moto si calma e le impurità si depositano sul fondo.1)

Dunque nel sangha si praticava un tipo di meditazione di apertura totale, in cui bisognava lasciarsi andare completamente, limitandosi a essere consapevoli dei propri pensieri, allorché si producessero, senza alcuna interferenza da parte del meditante.

Eppure, alla lunga, questo tipo di meditazione risultava improduttivo, in quanto si cercava di attingere l’apertura senza al contempo sviluppare una più profonda consapevolezza sul lato dei contenuti.

La meditazione di calma mentale, praticata come “lasciar-andare” nell’apertura, è fra le più difficili, in quanto presuppone un notevole percorso meditativo alle spalle del praticante ed una esperienza che solo la meditazione focalizzata sui contenuti può fornire.

Per questo motivo è bene che tale pratica vada sviluppata nei due sensi, per essere completa.

Da una parte si inizia praticando la meditazione dell’apertura, in cui ci si lascia andare completamente e si resta privi di punti fissi di riferimento, in una sorta di contemplazione vuota e senza oggetto.

Dall’altra però ci si abitua anche a focalizzarsi sui contenuti, innanzitutto corporei, per creare una più forte unità mente-corpo e per esercitare i caratteri della visione profonda.

Di queste metodologie tratteremo nei prossimi articoli, ma intanto preme rilevare che le due forme di meditazione, che potrebbero sembrare opposte, in realtà sono complementari e per questo vanno praticate contemporaneamente.

Lo scopo è quello di costruire un’unica meditazione in cui le due forme alla fine confluiscano, ma per far ciò è bene esercitarsi preliminarmente in ognuna di esse.

 I Due Presupposti del Sentiero Meditativo

Quando ci si avvicina alla meditazione come parte di un sentiero spirituale, bisogna almeno condividere due presupposti che sono anche due fondamenti dell’atteggiamento mentale di chi lo pratica.

Il primo è dato dal rendersi conto e dall’accettare pienamente il fatto che la meditazione è per tutta la vita.

Di conseguenza ci si illuderebbe se si ritenesse che produca i suoi frutti immediatamente o anche solo in un intervallo di tempo da noi arbitrariamente posto.

La meditazione è la compagna e la maestra di un’intera esistenza e non una pratica che serve in un certo periodo e a certe condizioni a soddisfare i nostri desiderata.

Il secondo riguarda invece l’aspetto metodologico della meditazione stessa.

Non è il metodo che produce il corretto atteggiamento mentale con cui pratichiamo la meditazione, ma al contrario si tratta solo di un mezzo attraverso cui la motivazione, la disciplina e il raccoglimento prendono forma.

Se assolutizzato o considerato di per sé, il metodo rappresenta un tentativo dell’io-ego di controllare e gestire la meditazione stessa, rendendola in tal modo arida e meccanica, in altri termini spiritualmente improduttiva.

Questi due presupposti sono anche dei discrimini che distinguono il praticante autentico da chi si accosta alla meditazione solo per esigenze acquisitive o per motivi di esclusivo benessere fisico e psicologico.

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1)  Nell’antica tradizione yogica indiana, śamatha veniva solitamente praticata con un supporto meditativo, necessario per indurre nel meditante uno stato mentale di concentrazione.