Meditazione dell’Apertura o della Vacuità

Apertura

L’apertura può essere definita in un certo senso come il supporto più esteso della meditazione della calma mentale (śamatha).

In effetti, la versione tradizionale yogica di tale meditazione la poneva in stretta relazione con un oggetto (supporto) sul quale il meditante doveva esercitare la sua vigile attenzione in un atteggiamento di concentrazione, vale a dire di esclusione dal suo campo sensoriale di ogni altro oggetto.

I supporti possono essere i più vari: immagini, oggetti, la fiamma di una candela, il respiro etc., ma possono anche essere rappresentati dallo spazio e dalle situazioni più rarefatte della coscienza, stati mentali di cui non potremmo dire che si tratti di coscienza o di incoscienza o addirittura del nulla più assoluto.1)

La meditazione dell’apertura è dunque una meditazione di calma mentale che viene detta anche “senza supporto”, in quanto non si focalizza su un oggetto o un atto particolare (ad es. il respirare), il ché tuttavia implica che il supporto possa anche essere considerato “illimitato”, in quanto l’apertura viene sperimentata come lo stato o la condizione in cui il meditante deve entrare affinché tale meditazione possa essere effettivamente praticata.

L’apertura viene qui esperita come spaziosità in cui la mente viene a trovarsi, una condizione in qualche modo senza limiti e senza confini.

Si badi che l’apertura riveste un significato che non è solo fisico, ma anche psicologico. Essa è intimamente legata a una condizione di abbandono, di lasciar andare ogni tipo di contenuto che possa presentarsi al meditante.

I contenuti ovviamente non vengono rifiutati (intendo le sensazioni e tutto ciò che è presente nel campo dei cinque sensi), ma piuttosto lasciati andare nella spaziosità.

E stessa cosa dicasi dei contenuti ideativi, dei pensieri che non potranno non affacciarsi alla mente. L’importante è prenderne nota e lasciarli andare senza insistere su di essi o – peggio ancora – resistere e contrastarli.

Alla mente che inevitabilmente andrà verso il passato (“cosa ho fatto ieri?”) o verso il futuro (“fra due ore ho un appuntamento”), è bene rispondere con uno stato che resta nel presente, nel qui e ora della meditazione.

Il fattore decisivo della meditazione di apertura non riguarda tuttavia solo il lasciar-andare i contenuti emotivi, sensoriali ed ideativi che possono presentarsi, ma lo stesso osservatore, pensato e sentito come io-ego.

E’ questo centro di autoriferimento che è presente in ogni elaborazione mentale, in ogni forma di desiderio e di attaccamento, che va abbandonato.

L’abbandono dell’io-ego è dato dal lasciar-andare tutte le tensioni, rappresentazioni, pensieri in cui esso vive e di cui si nutre.

Si scoprirà così che questo centro di autoriferimento continuo non è indipendente dai suoi contenuti ed elaborazioni, come ci viene dato di credere, ma che è un tutt’uno con essi.

La meditazione ne favorisce l’apertura, nel senso che l’io-ego, depotenziato delle sue energie costitutive, si diluisce nella spaziosità in cui l’attenzione non resta più centrata su di sé ma diventa un tutt’uno con i fenomeni che si presentano.

Vacuità

La meditazione dell’apertura conduce l’io-ego in uno stato di pura presenza. Presenza aperta e illimitata ai dati sensoriali sia corporei che fenomenici.

La meditazione della vacuità è un approfondimento della meditazione dell’apertura, nel senso che qui i contenuti non si limitano a essere accolti entro la spaziosità della presenza cosciente e vigile, ma vengono percepiti come essenzialmente vuoti.2)

Nell’apertura c’è il vuoto dello spazio aperto in cui i fenomeni trascorrono, ma questi non vengono colti e sentiti in una qualche modalità particolare: sono datità “neutre”, vissute come tali e non affatto oggettivate o comunque in qualche modo elaborate.

Nella vacuità al contrario, pur non sussistendo oggettività ed elaborazione, il fenomeno è colto come essenzialmente vuoto, nel senso che non è un dato esistente di per sé, dalla sua parte, ma risulta presente solo relativamente alla coscienza che lo coglie.3)

Per giungere a questa conclusione il meditante deve fare alcune investigazioni preliminari, attraverso le quali giunge a comprendere che tutti i fenomeni (sia interni che esterni) esistono in dipendenza da altri fenomeni, cause e condizioni, e che ciò che esiste in tale interdipendenza non è autonomo, autosufficiente ed esistente in sé.4)

I fenomeni non costituiscono un’unità indipendente definibile e oggettivabile, in quanto mancano di un sé che li definisca intrinsecamente o dalla loro parte. Diremo dunque che sono vuoti di sé e tale vacuità è proprio la loro essenza.

Questo vale sia per gli oggetti che noi cogliamo come esterni che per i dati interni, così come anche per il nostro io, che è solo un pensiero e stessa cosa dicasi per l’ego che è un aggregato di energie che vive in esse e attraverso esse.

Si comprenderà a questo punto che la meditazione della vacuità è una presa di consapevolezza che abbisogna di un lungo addestramento mentale, in quanto le cose che abbiamo appena riportate non sono certamente facili da comprendersi.

Quando però si approfondisce l’apertura nel senso della vacuità, si scopre che fondamentalmente la vacuità stessa è un’assenza di io-ego nella presenza cosciente.

In altri termini: la vacuità del sé dei fenomeni diventa molto più immediatamente evidente (anche senza dover procedere a sottili analisi) se riusciamo a mantenerci in una attenzione vigile e aperta senza io-ego, senza cioè una presenza che si contrapponga a un mondo percepito come oggettivo.

La caduta della scissione soggetto-oggetto è così il nucleo portante e anche il risultato della meditazione di vacuità.

Quando l’io-ego è completamente lasciato andare e le sue energie, attraverso la pratica della meditazione, esaurite, la presenza vive in uno stato di vacuità continua, in cui ogni fenomeno non è qualcosa che “è”, ma solo ciò che appare nel campo dello spazio-tempo, indistinguibile dalla coscienza.

La meditazione della vacuità non è comunque una pratica che coglie solo la vacuità dei fenomeni, ma approfondisce nel tempo anche il senso della vacuità stessa, perché è da essa ed in essa che sorgerà – secondo tutte le tradizioni dei meditanti – la visione della Realtà Risvegliata.5)

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1) Tale meditazione (śamatha o “meditazione della calma mentale”) nella tradizione buddista è riferita agli stati di assorbimento mentale codificati nei 4 Jhna o livelli che fanno capo ai differenti piani della realtà: regno del desiderio, della forma pura e del senza-forma.

2) Non è obbligatorio approfondire la meditazione dell’apertura in meditazione della vacuità, dato che quest’ultima è molto impegnativa sia sul lato dell’analisi che su quello della sperimentazione di una vera e propria assenza dell’io-ego. Per cui gli individui ai quali non si confà tale pratica possono benissimo continuare la loro meditazione dell’apertura.

3) Questa interdipendenza coscienza-fenomeno è sottolineata dalla scuola Cittamatra. La vacuità dei fenomeni tuttavia non dipende solo dal loro essere correlati alla coscienza, ma è costitutiva degli stessi come pure della coscienza, fatto che viene sostenuto dalla scuola Madhyamaka.

4) L’approccio della vacuità è tipico delle scuole buddiste, che – come è noto – si basano sul concetto di “non-sé” o anatman. La spiegazione della vacuità varia comunque in tutte le scuole, anche se le conclusioni sono analoghe. Nei lignaggi è differente anche il modo di esercitarsi e di analizzare la vacuità. Il lignaggio che più approfondisce sotto il profilo analitico questo aspetto della pratica è quello tibetano dei gelugpa.

5) Ovviamente questa Realtà si manifesta solo agli Illuminati. Noi che Illuminati non siamo la prendiamo come ipotesi di percorso, non come una verità di fede. Ci basta sperimentare che la meditazione conduce in ogni caso a un incremento della Realtà e a una maggiore consapevolezza nei confronti delle nostre proiezioni illusorie.